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venerdì 12 ottobre 2012

Fallisce in Iran la « rivoluzione colorata » di Thierry Meyssan

La « rivoluzione verde » di Teheran è l’ultimo avatar delle « rivoluzioni colorate » che hanno permesso agli Stati Uniti d’imporre in parecchi paesi dei governi al loro soldo senza dover ricorrere alla forza. Thierry Meyssan, che ha consigliato due governi di fronte a queste crisi, analizza questo metodo e le ragioni del suo fallimento in Iran.

Le « rivoluzioni colorate » stanno alle rivoluzioni come il Canada Dry sta alla birra. Vi assomigliano ma non ne hanno il sapore. Sono dei cambi di regime che hanno l’apparenza di una rivoluzione, in quanto mobilitano vasti settori del Popolo, ma rientrano nel colpo di Stato in quanto non mirano a cambiare le strutture sociali, ma a sostituire un’élite ad un’altra per condurre una politica economica ed estera filo-USA. La « rivoluzione verde » di Teheran ne è l’ultimo esempio.

Origine del concetto

Questo concetto compare negli anni 90, ma trova le sue origini nei dibattiti USA degli anni 70-80. Dopo le rivelazioni a catena sui colpi di Stato fomentati dalla CIA nel mondo e dopo che le commissioni parlamentari Church e Rockefeller [1] hanno ampiamente vuotato il sacco, l’ammiraglio Stansfield Turner viene incaricato dal presidente Carter di ripulire l’agenzia e di far cessare ogni sostegno alle « dittature fatte in casa ». Furenti, i social-democratici statunitensi (SD/USA) lasciano il Partito democratico e raggiungono Ronald Reagan. Si tratta di brillanti intellettuali trotzkisti [2], spesso legati alla rivista Commentary. Quando Reagan viene eletto, affida loro il compito di continuare l’ingerenza USA, ma con altri metodi. È così che essi creano, nel 1982, la National Endowment for Democracy (NED) [3] e, nel 1984, l’United States Institute for Peace (USIP). Le due strutture sono organicamente collegate: alcuni amministratori della NED siedono nel consiglio di amministrazione dell’USIP e viceversa.
Giuridicamente, la NED è un’associazione non a scopo di lucro, di diritto USA, finanziata da una sovvenzione annuale votata dal Congresso all’interno di un budget del dipartimento di Stato. Per condurre le sue azioni, essa le fa co-finanziare dall’US Agency for International Development (USAID), anch’essa legata al dipartimento di Stato. In pratica, questa struttura giuridica non è che un paravento utilizzato congiuntamente dalla statunitense CIA, dal britannico MI6 e dall’australiano’ASIS (e, occasionalmente, dai servizi canadesi e neozelandesi).
La NED si presenta come un organo di « promozione della democrazia ». Essa interviene sia direttamente, cioè attraverso uno dei suoi quattro tentacoli : uno destinato a corrompere i sindacati, un secondo incaricato di corrompere gli imprenditori, un terzo per i partiti di sinistra ed un quarto per quelli di destra ; sia, ancora, con l’intermediazione di fondazioni amiche, come la Westminster Foundation for Democracy (Regno Unito), l’International Center for Human Rights and Democratic Development (Canada), la Fondation Jean-Jaurès e la Fondation Robert-Schuman (Francia), l’International Liberal Center (Svezoa), l’Alfred Mozer Foundation (Paesi Bassi), la Friedrich Ebert Stiftung, la Friedrich Naunmann Stiftung, la Hans Seidal Stiftung e la Heinrich Boell Stiftung (Germania). La NED rivendica di aver così corrotto nel mondo più di 6 000 organizzazioni in una trentina d’anni. Tutto ciò, beninteso, mascherato sotto l’apparenza di programmi di formazione o di assistenza.
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Per quanto riguarda l’USIP, si tratta di un’istituzione nazionale statunitense. È sovvenzionato annualmente dal Congresso nel budget del dipartimento della Difesa. A differenza della NED, che serve da copertura ai servizi dei tre Stati alleati, l’USIP è esclusivamente statunitense. Sotto la copertura della ricerca in scienze politiche, può stipendiare delle personalità politiche straniere.
Da quando dispone di risorse, l’USIP finanzia una nuova e discreta struttura, l’Albert Einstein Institution [4]. Questa piccola associazione di promozione della non violenza è inizialmente incaricata di ideare una forma di difesa civile per le popolazioni dell’Europa occidentale in caso di invasione del Patto di Varsavia. Essa prende rapidamente autonomia e modella le condizioni per cui un potere statuale di qualsiasi natura possa perdere la sua autorità e crollare.

Primi tentativi

Il primo tentativo di « rivoluzione colorata » fallisce nel 1989. Si tratta di rovesciare Deng Xiaoping appoggiandosi su uno dei suoi vicini collaboratori, il segretario generale del Partito comunista cinese Zhao Ziyang, in modo da aprire il mercato cinese agli investitori statunitensi e da far entrare la Cina nell’orbita USA. I giovani sostenitori di Zhao invadono piazza Tienanmen [5]. Dai media occidentali sono presentati come degli studenti apolitici che si battono per la libertà contro l’ala tradizionale del Partito, mentre si tratta di una dissidenza tra nazionalisti e pro-USA all’interno della corrente di Deng. Dopo aver a lungo resistito alle provocazioni, Deng décide di concludere con la forza. Secondo le fonti, la repressione fa tra i 300 e i 1.000 morti.
Vent’anni dopo, la versione occidentale di questo mancato colpo di Stato non è cambiata. I media occidentali che recentemente hanno parlato del suo anniversario presentandolo come una « rivolta popolare » si sono stupiti che i Pechinesi non abbiamo mantenuto il ricordo dell’avvenimento. Il fatto è che una lotta interna al Partito non ha niente di «popolare». Essi non si sono sentiti coinvolti.
La prima « rivoluzione colorata » ha successo nel 1990. Mentre l’Unione Sovietica è in via di dissolvimento, il segretario di Stato James Baker si reca in Bulgaria per partecipare alla campagna elettorale del partito pro-USA, abbondantemente finanziato dalla NED [6]. Tuttavia, malgrado le pressioni del Regno Unito, i Bulgari, impauriti dalle conseguenze sociali del passaggio dell’URSS all’economia di mercato, commettono l’imperdonabile errore di eleggere al Parlamento una maggioranza di post-comunisti. Mentre gli osservatori della Comunità europea certificano la validità dello scrutinio, l’opposizione filo-USA urla alla frode elettorale e scende in piazza. Installa un accampamento nel centro di Sofia e fa piombare il paese nel caos per sei mesi, finché il Parlamento elegge come presidente il filo-USA Zhelyu Zhelev.

La « democrazia » : vendere il proprio paese ad interessi stranieri all’insaputa della sua popolazione

Da allora, Washington non cessa di organizzare, un po’ ovunque nel mondo, cambi di regime attraverso l’agitazione di piazza anziché per mezzo di giunte militari. Quello che importa è mettere in luce le implicazioni.
Al di là del discorso lenitivo sulla « promozione della democrazia », l’azione di Washington mira all’imposizione di regimi che le aprano senza condizioni i mercati interni e che si allineino sulla sua politica estera. Ora, se questi obiettivi sono conosciuti dai dirigenti delle « rivoluzioni colorate », essi non sono mai discussi ed accettati dai manifestanti che essi mobilitano. E, nel caso in cui questi colpi di Stato riescano, i cittadini non tardano a rivoltarsi contro le nuove politiche che vengono loro imposte, anche se è troppo tardi per tornare indietro.
Del resto, come si può considerare « democratiche » delle opposizioni che, per prendere il potere, vendono il loro paese ad interessi stranieri all’insaputa della loro popolazione ?
Nel 2005, l’opposizione kirghisa contesta il risultato delle elezioni legislative e conduce a Bishkek dei manifestanti dal Sud del paese. Essi depongono il presidente Askar Akaïev. E’ la « rivoluzione dei tulipani ». L’Assemblea nazionale elegge come presidente il filo-USA Kurmanbek Bakiev. Non riuscendo a controllare i suoi sostenitori che saccheggiano la capitale, egli dichiara di aver cacciato il dittatore e finge di voler creare un governo di unione nazionale. Fa uscire di prigione il generale Felix Kulov, ex sindaco di Bishkek, e lo nomina ministro dell’Interno, poi Primo ministro. Quando la situazione è stabilizzata, Bakaiev si sbarazza di Kulov e vende, senza possibilità di una contro-offerta e con successivi accordi sottobanco, le poche risorse del paese a delle società USA ed installa una base militare USA a Manas. Il livello di vita della popolazione non è mai stato così basso. Felix Kulov propone di risollevare il paese federandolo, come nel passato, alla Russia. Non ci mette molto a tornare in prigione.

Un male per un bene ?

Nel caso di Stati sottoposti a regimi repressivi, talvolta si obietta che se tali « rivoluzioni colorate » apportano solo una democrazia di facciata, in ogni caso esse procurano un miglioramento alle popolazioni. Ora, l’esperienza mostra che niente è meno sicuro. I nuovi regimi possono rivelarsi più repressivi dei vecchi.
Nel 2003, Washington, Londra e Parigi [7] organizzano la « rivoluzione delle rose » in Georgia [8]. Secondo uno schema classico, l’opposizione denuncia dei brogli elettorali alle elezioni legislative e scende in piazza. I manifestanti costringono alla fuga il presidente Eduard Shevardnadze e prendono il potere. Il suo successore Mikhail Saakashvili apre il paese agli interessi economici USA e rompe con il vicino russo. L’aiuto economico promesso da Washington per sostituirsi all’aiuto russo non arriva. La già compromessa economia crolla. Per continuare ad accontentare i suoi mandanti, Saakashvili deve imporre una dittatura [9]. Chiude dei media e riempie le prigioni, il che non impedisce per niente alla stampa occidentale di continuare a presentarlo come « democratico ». Condannato alla fuga in avanti, Saakashvili decide di rifarsi una popolarità gettandosi in un’avventura militare. Con al’aiuto dell’amministrazione Bush e di Israele, al quale ha affittato delle basi aeree, bombarda la popolazione dell’Ossezia del Sud facendo 1.600 morti, la maggior parte dei quali ha anche la nazionalità russa. Mosca risponde. I consiglieri statunitensi ed israeliani se la svignano [10]. La Georgia viene devastata.

Basta !

Il meccanismo principale delle « rivoluzioni colorate » consiste nel focalizzare il malcontento popolare sul bersaglio che si vuole abbattere. Si tratta di un fenomeno di psicologia delle masse che spazza via tutto al suo passaggio ed al quale nessun ostacolo ragionevole può essere opposto. Il capro espiatorio è accusato di tutti i mali che affliggono il paese da almeno una generazione. Più egli resiste, più cresce la collera della folla. Quando egli cede oppure scappa, la popolazione ritorna in sé, ricompare un divario ragionevole tra i suoi sostenitori ed i suoi oppositori.
Nel 2005, nelle ore successive all’assassinio dell’ex Primo ministro Rafik Hariri, in Libano si diffonde la voce che sia stato ucciso dai « Siriani ». L’esercito siriano, che — in virtù dell’Accordo di Taëf — mantiene l’ordine dopo la fine della guerra civile, viene dileggiato. Il presidente siriano Bashar el-Assad è personalmente messo in causa dalle autorità statunitensi, cosa che per l’opinione pubblica vale come una prova. A chi fa osservare che — malgrado momenti tempestosi — Rafik Hariri è sempre stato utile alla Siria e che la sua morte priva Damasco di un collaboratore essenziale, si ribatte che il « regime siriano » è di per sé così malvagio da non potersi impedire di uccidere anche i suoi amici. I Libanesi reclamano a gran voce uno sbarco dei GI’s per cacciare i Siriani. Ma, tra la sorpresa generale, Bashar el-Assad, considerando che il suo esercito non è più il benvenuto in Libano mentre il suo spiegamento gli costa caro, ritira i suoi uomini. Vengono organizzate delle elezioni legislative che vedono il trionfo della coalizione « anti-siriana ». E’ la « rivoluzione del cedro ». Quando la situazione si stabilizza, ognuno si rende conto che, se dei generali siriani per il passato hanno depredato il paese, la partenza dell’esercito siriano non cambia niente economicamente. Soprattutto, il paese è in pericolo, non ha più i mezzi per difendersi contro l’espansionismo del vicino israeliano. Il principale leader « anti-siriano », il generale Michel Aun, si ravvede e passa all’opposizione. Furibonda, Washington moltiplica i progetti per assassinarlo. Michel Aun si allea a Hezbollah attorno ad una piattaforma patriottica. È tempo : Israele attacca.
In tutti i casi, Washington prepara in anticipo il governo « democratico », il che conferma che si tratta di un colpo di Stato mascherato. La composizione della nuova squadra è mantenuta il più possibile segreta. Ecco perché la designazione del capro espiatorio si fa senza mai ventilare alternative politiche.
In Serbia, i giovani « rivoluzionari » filo-USA scelgono un logo appartenente all’immaginario comunista (il pugno alzato) per mascherare la loro subordinazione agli Stati Uniti. Prendono come slogan « E’ finito ! », federando così il malcontento contro la persona di Slobodan Milosevic che rendono responsabile dei bombardamenti del paese eppure effettuati dalla NATO. Questo modello viene riproposto più volte, ad esempio dal gruppo Pora ! in Ucraina, o Zubr in Bielorussia.

Una non violenza di facciata

Le comunicazioni del dipartimento di Stato sono attente all’immagine non-violenta delle «rivoluzioni colorate». Tutte mettono in primo piano le teorie di Gene Sharp, fondatore dell’Albert Einstein Institution. Ora, la non-violenza è un metodo di lotta destinato a convincere il potere a cambiare politica. Affinché una minoranza si impadronisca del potere e lo eserciti, c’è sempre bisogno, in un momento o in un altro, che essa utilizzi la violenza. E tutte le « rivoluzioni colorate » l’hanno fatto. .
Nel 2000, mentre manca ancora un anno allo scadere del mandato del presidente Slobodan Milosevic, egli convoca delle elezioni anticipate. Egli stesso ed il suo principale oppositore, Vojislav Koštunica, si ritrovano in ballottaggio. Senza attendere il secondo turno dello scrutinio, l’opposizione grida alla frode e scende in piazza. Migliaia di manifestanti, tra cui i minatori di Kolubara, affluiscono verso la capitale. Le loro giornate di lavoro sono pagate indirettamente dalla NED, senza che essi siano consapevoli di essere remunerati dagli Stati Uniti. Essendo insufficiente la pressione della manifestazione, i minatori attaccano degli edifici pubblici con dei bulldozers che hanno portato con sé: da qui il nome « rivoluzione dei bulldozer ».
Nel caso in cui la tensione si prolunghi all’infinito e si organizzino delle contro-manifestazioni, l’unica soluzione per Washington è precipitare il paese nel caos. Vengono allora appostati in entrambe i campi degli agenti provocatori che sparano sulla folla. Ciascuna delle parti può constatare che quelli di fronte hanno sparato mentre avanzava pacificamente. Lo scontro diventa generale.
Nel 2002, la borghesia di Caracas scende in piazza per schernire la politica sociale del presidente Hugo Chavez [11]. Con abili montaggi, le televisioni private danno l’impressione di una marea umana. Sono 50,000 secondo gli osservatori, 1 milione secondo la stampa e il dipartimento di Stato. Avviene allora l’incidente del ponte Llaguno. Le televisioni mostrano chiaramente dei filo-chavisti armati che sparano sulla folla. In una conferenza stampa, il generale della Guardia nazionale e viceministro della sicurezza interna conferma che le « milizie chaviste » hanno sparato sul popolo facendo 19 morti. Dà le dimissioni e fa appello per il rovesciamento della dittatura. Il presidente non tarda ad essere arrestato da militari insorti. Ma il Popolo scende a milioni nella capitale e ristabilisce l’ordine costituzionale.
Una successiva inchiesta giornalistica ricostruisce nei dettagli la strage del ponte Llaguno. Essa metterà in evidenza un montaggio delle immagini fasullo, il cui ordine cronologico è stato falsificato come attestano i quadranti degli orologi dei protagonisti. In realtà, sono i chavisti ad essere aggrediti e, dopo essere ripiegati, hanno tentato di sganciarsi usando armi da fuoco. Gli agenti provocatori erano dei poliziotti locali formati da un’agenzia USA [12].
Nel 2006, la NED riorganizza l’opposizione al presidente kenyan Mwai Kibaki. Finanzia la creazione del Partito arancione di Raila Odinga. Questi riceve il sostegno del senatore Barack Obama, accompagnato da specialisti della destabilizzazione (Mark Lippert, attuale capo di gabinetto del consigliere di sicurezza nazionale, e il generale Jonathan S. Gration, attuale inviato speciale del presidente USA per il Sudan). Partecipando ad un meeting di Odinga, il senatore dell’Illinois s’inventa un vago legame di parentela con il candidato pro-USA. Tuttavia, Odinga perde le elezioni legislative del 2007. Sostenuto dal senatore John McCain nella sua qualità di presidente dell’IRI (lo pseudopodio repubblicano della NED), egli contesta la validità dello scrutinio e chiama i suoi sostenitori a scendere in piazza. .
È allora che messaggi anonimi SMS sono diffusi in massa agli elettori dell’etnia Luo. «Cari Kenyani, i Kikuyu hanno rubato il futuro dei nostri bambini…dobbiamo trattarli nel solo modo che essi comprendono… la violenza ». Il paese, sia pure uno dei più stabili dell’Africa, improvvisamente s’infiamma. Dopo giorni di sommosse, il presidente Kibaki è costretto ad accettare la mediazione di Madeleine Albright nella sua qualità di presidente del NDI (lo pseudopodio democratico della NED). Viene creato un posto di Primo ministro che va ad Odinga. Dal momento che gli SMS d’odio non sono stati inviati da installazioni kenyane, ci domandiamo quale potenza straniera abbia potuto spedirli.

La mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale

Nel corso degli ultimi anni, Washington ha avuto modo di lanciare delle « rivoluzioni colorate » convinta che esse avrebbero fallito la presa del potere, ma permesso di manipolare l’opinione pubblica e le istituzioni internazionali.
Nel 2007, numerosi Birmani insorgono contro l’aumento dei prezzi della benzina per uso domestico. Le manifestazioni degenerano. I monaci buddhisti prendono la testa della contestazione. È la « rivoluzione zafferano » [13]. In realtà, a Washington non interessa il regime di Rangoon ; le interessa invece strumentalizzare il Popolo birmano per far pressione sulla Cina che in Birmania ha interessi strategici (oleodotti e basi militari di ascolto elettronico). Per questo, l’importante è mettere in scena la realtà. Immagini prese da telefoni portatili appaiono su YouTube. Esse sono anonime, non verificabili e fuori contesto. È precisamente la loro apparente spontaneità a dare loro autorità. La Casa Bianca può imporre la sua interpretazione dei video.
Più recentemente, nel 2008, manifestazioni studentesche paralizzano la Grecia in seguito all’uccisione di un ragazzo di 15 anni da parte di un poliziotto. Rapidamente, fanno la loro comparsa dei teppisti. Sono stati reclutati nel vicino Kosovo e trasportati in autobus. I centri cittadini sono saccheggiati. Washington cerca di far fuggire I capitali verso altri lidi e di riservarsi il monopolio degli investimenti nei terminali del gas in costruzione. Una campagna di stampa farà dunque passare l’asfittico governo Karamanlis per quello dei colonnelli. Facebook e Twittter sono utilizzati per mobilitare la diaspora greca. Le manifestazioni si estendono ad Istanbul, Nicosia, Dublino, Londra, Amsterdam, L’Aja, Copenhagen, Francoforte, Parigi, Roma, Madrid, Barcellona, etc.

La rivoluzione verde

L’operazione condotta nel 2009 in Iran s’inscrive in questa lunga lista di pseudo rivoluzioni. In primo luogo, il Congresso vota nel 2007 uno stanziamento di 400 milioni di dollari per « cambiare il regime » in Iran. Questo si aggiunge ai budget ad hoc della NED, dell’USAID, della CIA e tutti quanti. Si ignora come sia utilizzato questo denaro, ma ne sono destinatari tre gruppi principali : la famiglia Rafsanjani, la famiglia Pahlevi e i Mujahidin del popolo.
L’amministrazione Bush prende la decisione di sponsorizzare una « rivoluzione colorata » in Iran dopo aver confermato la decisione dello stato maggiore di non attaccare militarmente il paese. Questa scelta è convalidata dall’amministrazione Obama. Per difetto, si riapre dunque il dossier di « rivoluzione colorata », preparato nel 2002 con Israele all’interno dell’American Enterprise Institute. All’epoca, avevo pubblicato un articolo su questo dispositivo [14]. Basta rileggerlo per identificare gli attuali protagonisti : è stato poco modificato. Era stata aggiunta una parte libanese che prevede una sommossa a Beyruth in caso di vittoria della coalizione patriottica (Hezbollah, Aun) alle elezioni legislative, ma è stata annullata.
Lo scenario prevede un massiccio sostegno al candidato scelto dall’ayatollah Rafsanjani, la contestazione dei risultati dell’elezione presidenziale, attentati a 360 gradi, la deposizione del presidente Ahmadinejad e della guida suprema l’ayatollah Khamenei, l’instaurazione di un governo di transizione diretto da Musavi, poi la restaurazione della monarchia e l’installazione di un governo diretto da Sohrab Sobhani.
Come ideato nel 2002, l’operazione ha come suoervisori Morris Amitay e Michael Ledeen. Essa mobilita in Iran le reti dell’Irangate.
A questo punto, è necessario un breve richiamo storico. L’Irangate è un’illecita vendita d’armi : la Casa Bianca desidera fornire armi da una parte ai Contras nicaraguensi (perché lottassero contro i sandinisti) e dall’altra parte all’Iran (per far durare la guerra Iran-Iraq fino allo sfinimento), ma ne è interdetta dal Congresso. Allora gli Israeliani propongono di subappaltare contemporaneamente le due operazioni. Ledeen, che ha la doppia nazionalità statunitense ed israeliana, serve da agente di collegamento a Washington, mentre Mahmud Rafsanjani ( fratello dell’ayatollah) è il suo corrispondente a Teheran. Il tutto sullo sfondo di corruzione generalizzata. Quando negli Stati Uniti scoppia lo scandalo, nasce una commissione d’inchiesta indipendente diretta dal senatore Tower e dal generale Brent Scowcroft (mentore di Robert Gates).
Michael Ledeen è uno che la sa lunga sulle operazioni segrete. Lo si trova a Roma in occasione dell’assassinio di Aldo Moro, lo si ritrova nell’invenzione della pista bulgara nella circostanza del tentato assassinio di Giovanni Paolo II o, più recentemente, nell’invenzione delle fornitura a Saddam Hussein di uranio dal Niger. Oggi lavora all’American Enterprise Institute [15] (a fianco di Richard Perle e di Paul Wolfowitz) e alla Foundation for the Defense of Democracies [16].
Morris Amitay è ex direttore dell’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC). Oggi, è vicepresidente del Jewish Institute for National Security Affairs (JINSA) e direttore di uno studio di consulenza per grandi ditte d’armamento.
Il 27 aprile scorso, Morris e Ledeen organizzano un seminario sull’Iran all’American Enterprise Institute a proposito delle elezioni iraniane, attorno al senatore Joseph Lieberman. Il 15 maggio scorso, nuovo seminario. La parte pubblica consiste in una tavola rotonda animata dall’ambasciatore John Bolton sulla « grande contrattazione » : accetterebbe Mosca di lasciar cadere Teheran in cambio della rinuncia di Washington allo scudo antimissili in Europa centrale ? L’esperto francese Bernard Hourcade partecipa a questi scambi di vedute. Contemporaneamente, l’Istituto lancia un sito internet destinato alla stampa nella crisi a venire : IranTracker.org. il sito comprende una rubrica sulle elezioni libanesi.
In Iran, è compito dell’ayatollah Rafsanjani rovesciare il suo vecchio rivale, l’ayatollah Khamenei. Proveniente da una famiglia di agricoltori, Hashemi Rafsanjani ha fatto fortuna sotto lo Scià con la speculazione immobiliare. È divenuto il principale grossista di pistacchi del paese e ha arrotondato la sua fortuna durante l’Irangate. I suoi averi sono valutati in parecchi miliardi di dollari. Divenuto l’uomo più ricco d’Iran, è stato successivamente presidente del parlamento, presidente della Repubblica e, oggi, è presidente del Consiglio di discernimento (istituzione di arbitraggio tra il Parlamento e il Consiglio dei guardiani della costituzione). Egli rappresenta gli interessi del bazar, ossia dei commercianti di Teheran.
Durante la campagna elettorale, Rafsanjani ha fatto promettere al suo ex avversario divenuto suo pupillo Mirhossein Musavi, di privatizzare il settore del petrolio.
Senza alcuna connessione con Rafsanjani, Washington si rivolge ai Mujahidin del popolo [17]. Questa organizzazione protetta dal Pentagono è considerata terroristica dal dipartimento di Stato e lo è stata dall’Unione Europea. In effetti, negli anni 80, essa ha effettuato operazioni terribili, tra cui un mega-attentato costato la vita all’ayatollah Beheshti nonché a quattro ministri, sei ministri aggiunti e ad un quarto del gruppo parlamentare del Partito della repubblica islamica. L’organizzazione è comandata da Massud Rajavi, che aveva sposa in prime nozze la figlia del presidente Bani Sadr e poi, in seconde nozze, la crudele Myriam. La sua sede è installata nella regione persiana e le sue basi militari in Iraq, dapprima sotto la protezione di Saddam Husein poi, oggi, sotto quella del dipartimento della Difesa. Sono i Mujahidin che assicurano la logistica degli attentati dinamitardi durante la campagna elettorale [18]. Spetta a loro provocare scontri tra militanti pro ed contro Ahmadinejad, cosa che probabilmente fannp.
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Nel caso in cui subentri il caos, la Guida suprema può essere rovesciata. Un governo di transizione, diretto da Mirhussein Musavi privatizzerebbe il settore del petrolio e ristabilirebbe la monarchia. Il figlio dell’ex Scià, Reza Ciro Pahlavi, verrebbe rimesso sul trono e designerebbe come Primo ministro Sohrab Sobhani.
In questa prospettiva, Reza Pahlavi pubblica in febbraio un libro di conversazioni con il giornalista francese Michel Taubmann. Questi è direttore dell’ufficio d’informazione parigino d’Arte e presiede il Cercle de l’Observatoire, il club dei neoconservatori francesi.
Ricordiamoci che Washington aveva previsto il ripristino della monarchia anche in Afghanistan. Mohammed Zaher Scià doveva riprendere il suo trono a Kabul e Hamid Karzai doveva essere il suo Primo ministro. Malauguratamente, a 88 anni, il pretendente era divenuto troppo vecchio. Karzai è dunque divenuto lui presidente della Repubblica. Come Karzai, Sobhani è anche cittadino statunitense. Come lui, lavora nel settore petrolifero del Caspio.
Dal lato propaganda, il dispositivo iniziale è affidato allo studio Benador Associates. Ma esso si è evoluto sotto l’influenza dell’assistente del segretario di Stato per l’Istruzione e la Cultura, Goli Ameri. Questa iraniana statunitense è una vecchia collaboratrice di John Bolton. Specialista dei nuovi media, ha realizzato dei programmi di equipaggiamento e di formazione ad internet per gli amici di Rafsanjani. Ha inoltre elaborato radio e televisioni in lingua farsi per la propaganda del dipartimento di Stato e in coordinamento con la britannica BBC.
La destabilizzazione dell’Iran è fallita perché la molla principale delle «rivoluzioni colorate» non è stata attivata correttamente. MirHussein Musavi non è arrivato a cristallizzare i malcontenti sulla persona di Mahmud Ahmadinejad. Il Popolo iraniano non si è ingannato. Non ha reso il presidente uscente responsabile delle conseguenze delle sanzioni economiche statunitensi sul paese. Per questo, la contestazione si è limitata alla borghesia dei quartieri nord di Teheran. Il potere si è astenuto dall’opporre dei manifestanti gli uni contro gli altri e ha lasciato che i complottasti si scoprissero. .
Tuttavia, bisogna ammettere che l’intossicazione dei media occidentali ha funzionato. L’opinione pubblica estera ha creduto realmente che due milioni di Iraniani fossero scesi in piazza, quando il numero reale è inferiore di almeno dieci volte. Il fatto che i corrispondenti della stampa rimanessero nelle loro sedi ha facilitato tali esagerazioni dispensandoli dal fornire le prove delle loro accuse.
Avendo rinunciato alla guerra e fallito nel rovesciare il regime, quale carta resta nelle mani di Barack 
Obama ?

Thierry Meyssan

Tratto da: http://www.voltairenet.org/article160825.html