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giovedì 4 ottobre 2012

La tattica della bestemmia

di Thierry Meyssan

La diffusione su internet degli estratti del film “L’innocenza dei musulmani” ha scatenato manifestazioni rabbiose nel mondo, una delle quali è degenerata a Bengasi. L’ambasciatore degli Stati Uniti in Libia e membri della sua scorta sono stati uccisi. A prima vista, il caso si situa lungo una lunga serie che va dai Versetti satanici di Salman Rushdie ai roghi del Corano del pastore Terry Jones. Tuttavia, questo nuovo attacco si differenzia dagli altri in quanto il film non è destinato al pubblico occidentale, ma è stato concepito unicamente come uno strumento di provocazione indirizzato ai musulmani.
In termini politici, questo caso può essere analizzato in due modi a seconda che lo si osservi sul piano tattico come una manipolazione anti-Usa o sul piano strategico come un attacco psicologico anti-musulmano.
Il film è stato prodotto da un gruppo composto da ebrei sionisti con doppia cittadinanza israelo-statunitense e da un copto egiziano. Era pronto da diversi mesi ed è stato utilizzato al momento voluto per provocare disordini rivolti contro gli Stati Uniti. Agenti israeliani sono stati dispiegati in diverse grandi città, con il compito di guidare l’ira della folla contro obiettivi statunitensi o copti (mai israeliani). Non sorprendentemente, l’effetto massimo è stato raggiunto a Bengasi.
La popolazione di Bengasi è nota per ospitare dei gruppi particolarmente reazionari e razzisti. Ricordiamo che, nel caso delle vignette su Maometto, i salafiti avevano attaccato il consolato danese. In ottemperanza alla Convenzione di Vienna, il governo libico di Muammar el-Gheddafi aveva dovuto schierare dei soldati per proteggere la rappresentanza diplomatica. La repressione della rivolta aveva causato numerose vittime. In seguito, gli occidentali che volevano rovesciare il regime libico avevano finanziato pubblicazioni salafite che accusavano il colonnello Gheddafi di aver protetto il consolato danese perché sarebbe stato lui stesso lo sponsor delle caricature. Il 15 febbraio 2011, i salafiti avevano organizzato a Bengasi un evento commemorativo della strage, nel corso del quale scoppiò una sparatoria, che segnò l’inizio della rivolta in Cirenaica spianando la strada per l’intervento della NATO.
La polizia libica arrestò tre membri delle forze speciali italiane, che confessarono di aver sparato dai tetti sia sui manifestanti sia sulla polizia per creare confusione. Tenuti prigionieri nel corso di tutta la guerra, furono liberati in occasione della presa della capitale da parte della NATO e furono esfiltrati verso Malta su una piccola barca da pesca nella quale mi trovavo con loro.
Questa volta, la manipolazione della folla di Bengasi da parte di agenti israeliani aveva lo scopo di assassinare l’ambasciatore statunitense, un atto di guerra senza precedenti, dai tempi del bombardamento della USS Liberty da parte della marina israeliana nel 1967. Inoltre, questo è il primo assassinio dal 1979 di un ambasciatore degli Stati Uniti nell’esercizio delle sue funzioni. E in questo caso è ancora più grave il fatto che in un paese in cui il governo è una pura finzione giuridica, l’ambasciatore USA non è un semplice diplomatico, ma ricopre la funzione di governatore, di capo dello Stato de facto.
Nel corso delle ultime settimane, i più alti responsabili militari degli Stati Uniti sono entrati in conflitto aperto con il governo israeliano. Hanno moltiplicato le dichiarazioni che attestano la loro volontà di rompere il ciclo di guerre iniziate con l’11 settembre (Afghanistan, Iraq, Libia, Siria), mentre gli accordi informali del 2001 ne prevedono altre ancora (Sudan, Somalia, Iran). Un primo colpo di avvertimento si è materializzato con l’attacco missilistico contro l’aereo del Capo dello Stato Maggiore congiunto delle forze armate statunitensi, il generale Martin Dempsey. Il secondo avvertimento è più brutale.
Per altro verso, se si considera questa vicenda in termini di psicologia sociale, appare come un attacco frontale contro le credenze dei musulmani. In questo, non è diversa dall’episodio in cui le Pussy Riot violavano la libertà di culto nella cattedrale ortodossa di Cristo Salvatore e dalle varie esibizioni di pornografia concettuale che ne seguirono. Queste diverse operazioni mirano a desacralizzare le società che resistono al progetto di dominazione globale.
Nelle società democratiche e multiculturali, il sacro si esprime soltanto nella sfera privata. Tuttavia, un nuovo spazio sacro collettivo si sta formando. Gli stati dell’Europa occidentale hanno leggi della memoria che hanno trasformato un evento storico, la distruzione degli ebrei d’Europa da parte dei nazisti, in un fatto religioso (la «Shoah», secondo la terminologia ebraica, o l’«Olocausto» secondo il vocabolario evangelico). Tale reato viene allora elevato al rango di evento unico a scapito delle vittime di altri massacri, incluse le altre vittime del nazismo. La messa in discussione del dogma, vale a dire, l’interpretazione teologica del fatto storico, è passibile di sanzioni penali come un tempo lo era la bestemmia. Allo stesso modo, nel 2001, gli USA, gli Stati membri dell’Unione europea, e molti dei loro alleati hanno imposto per decreto a tutta la loro popolazione un minuto di silenzio in memoria delle vittime degli attentati dell’11 settembre. Questa iniziativa si accompagnava a un’interpretazione ideologica delle cause della strage. In entrambi i casi, l’essere stati uccisi in quanto ebrei o perché statunitensi conferisce uno status speciale alle vittime davanti al quale il resto dell’umanità è invitato a inchinarsi.
In occasione delle ultime Olimpiadi a Londra, le delegazioni israeliana e statunitense hanno cercato di estendere questo spazio sacro imponendo un minuto di silenzio durante la cerimonia di apertura, l’evento televisivo più seguito al mondo. Si sarebbe trattato di celebrare la memoria delle vittime prese come ostaggi in occasione delle Olimpiadi Monaco. In definitiva, la proposta è stata respinta, poiché il Comitato Olimpico si è accontentato semplicemente di una discreta cerimonia distinta. In ogni caso, la sfida è quella di creare una liturgia collettiva che legittimi l’impero globale.
Così, “L’innocenza dei musulmani” è sia un mezzo di pressione per richiamare all’ordine Washington, tentata dall’allontanarsi dal progetto di dominazione sionista, sia un mezzo per perseguire tale progetto attraverso l’offesa nelle loro credenze di coloro che gli resistono.

I giochi di influenza dietro “L’innocenza dei musulmani”di Thierry Meyssan
Le reazioni internazionali al film di “Sam Bacile” risultano sempre più incomprensibili se le si prende di primo acchito, ignorando chi siano gli sponsor e quali i loro obiettivi. Questo modo di provocare lo scontro di civiltà è assai diverso dai precedenti.
Non si tratta in questo caso di stigmatizzare l’Islam presso le popolazioni occidentali per suscitare odio contro i musulmani, ma di rivolgersi ai musulmani per insultarli e suscitare presso di loro un odio verso gli occidentali. Non è tanto una questione di “islamofobia”, quanto di “mazzate all’Islam”. L’obiettivo è provocare la collera dei musulmani e orientarla verso bersagli specifici: coloro che negli USA o fra i loro alleati vogliono interrompere il ciclo di guerre iniziate l’11 settembre 2001.
Non sappiamo ancora se “L’innocenza dei musulmani” esista per intero. Per il momento, non conosciamo altro che 13 minuti di questo film, diventati offensivi nei confronti dell’Islam dopo che è stato modificato il sonoro. Caricato dapprima su YouTube, questo video non aveva avuto l’impatto previsto se non quando è stato trasmesso dalla televisione araba salafita Al-Nas.
Dei gruppi salafiti hanno a quel punto reagito con violenza, ma invece di attaccare la loro televisione o i suoi finanziatori sauditi... se la sono presa con le rappresentanze diplomatiche statunitensi.
Il Dipartimento di Stato era stato avvertito già dal 9 settembre - ossia due giorni prima della diffusione del film dalla televisione salafita – sul fatto che varie sue ambasciate sarebbero state attaccate il giorno 11. Tuttavia, questo allarme non è stato preso sul serio e il personale diplomatico non è stato informato del pericolo. Il Dipartimento di Stato si aspettava manifestazioni anti-americane che commemorassero gli attentati dell’11 settembre 2001, non il rilancio di questa logica.
È ormai accertato che, dietro la folla di Bengasi, un commando era pronto ad attaccare il consolato, e poi ad attaccare la villa-rifugio destinata a servire da posizione di ripiego in caso di gravi problemi.
L’obiettivo di questa operazione era l’ambasciatore degli Stati Uniti in Libia Chris Stevens. Questo specialista di affari medio-orientali presso il Dipartimento di Stato era conosciuto per le sue posizioni certamente di marca imperialista USA, ma anti-sioniste. Come confermato dal negoziatore palestinese Saeb Erekat, quando ha deplorato la morte di un diplomatico che ha fatto molto per capire e far intendere a Washington il punto di vista del popolo palestinese.
Un secondo obiettivo doveva essere scelto per punire la Francia per essersi allineata alle posizioni degli Stati Uniti. Parigi rifiuta in effetti di lasciarsi trascinare in una guerra contro l’Iran e si rifiuta parimenti di impegnarsi un po’ di più nel pantano siriano. A tal fine, una nuova provocazione è stata ordita utilizzando una rivista satirica che trasmette da anni il punto di vista neoconservatore nell’ambito della sinistra francese. Anticipando le conseguenze, la Francia ha immediatamente interrotto il funzionamento di una ventina delle sue ambasciate e ha dispiegato un sistema di sicurezza rafforzato.
Nel suo paese, il governo francese si è presentato come garante della libertà di espressione. A questo titolo, difende il diritto degli oppositori dell’Islam alla caricatura blasfema. Tuttavia, contraddicendo se stesso, lo stesso governo ha annunciato il divieto di qualsiasi manifestazione ostile al film o al giornale negando così la libertà di espressione dei difensori dell’Islam.
Tuttavia, secondo la tradizione francese, la libertà di espressione è intesa come un prerequisito della democrazia. Essa si accompagna quindi al divieto di insulto e diffamazione che vanno a perturbare il dibattito democratico. Orbene, la caratteristica principale de “L’innocenza” è che non riporta alcun fatto storico e non presenta alcuna critica nei confronti dell’Islam. Si compone esclusivamente di scene ingiuriose. E l’insulto non è un diritto umano.
Torniamo sul piano geopolitico. “L’innocenza dei musulmani” ricorda l’operazione condotta intorno ai “Versetti satanici”. Era il 1988, l’Iran aveva appena trionfato da solo sull’Iraq, massicciamente sostenuto dall’Occidente. In pochi anni, l’Imam Khomeini aveva trasformato un popolo colonizzato in una nazione di guerrieri. Traeva dalla sua religione la forza che gli ha consentito di trasformare il suo paese e vincere. Per spaccare questa pericolosa Rivoluzione islamica, l’MI6 aveva commissionato un libro allo scrittore britannico Salman Rushdie. Ruhollah Khomeini emise immediatamente un decreto religioso che lo condannava a morte. La campagna si fermò all’istante e la condanna, sebbene mantenuta, non fu eseguita.
Questa volta, Teheran avrebbe avuto da reagire con la stessa velocità. Ma era in trappola: nel condannare il film, avrebbe fatto il gioco di coloro che stanno spingendo affinché Washington entri in guerra contro l’Iran. La soluzione tattica risiede nel coinvolgimento di nuovi soggetti. In un primo momento, l’Ayatollah Ali Khamenei ha condannato il film ricordando che il nemico è il sionismo. Poi, in un secondo tempo, Hassan Nasrallah, il segretario generale di Hezbollah, ha preso posizione per prendere la testa del movimento. A Beirut, in un discorso incandescente davanti a una folla a sua volta galvanizzata, ha messo di fronte alle proprie responsabilità coloro che diffondono questi insulti . L’ingresso nella tenzone di Hezbollah cambia profondamente le carte in tavola. Si passa dagli eccessi operati da fazioni salafite disordinate, facilmente manipolate da Israele, a un avvertimento pronunciato da una grande organizzazione strutturata, che dispone di cellule poste in ordine di combattimento in numerosi paesi. Questa volta è Tel Aviv ad essere in trappola: ha perso il controllo del movimento di protesta che può in ogni momento rivoltarsi contro.
A sua volta, per cavarsi d’impiccio, l’amministrazione Obama ha moltiplicato le dichiarazioni rasserenanti indirizzate ai musulmani. Ma, con una totale mancanza di solidarietà, ha anche condannato le contraddizioni francesi sperando di deviare così verso Parigi il fulmine che la colpisce.
In ogni caso, Benjamin Netanyahu non allenta la pressione. Ha intimato a Barack Obama di tracciare una linea rossa davanti alle ambizioni nucleari militari che attribuisce agli iraniani, e di entrare in guerra non appena riterrà che la stiano oltrepassando.