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mercoledì 21 novembre 2012

Industria farmaceutica e occupazione israeliana

Dal 1967, al termine della guerra dei sei giorni, i palestinesi sono sottoposti ad un regime militare di occupazione da cui dipende anche la normativa sul commercio. Vedremo qui di seguito come, in nome del divide et impera, Israele abbia rallentato in ogni modo la nascita di una organizzazione farmaceutica palestinese, mantenendo nei territori occupati (OPT) un vero e proprio sistema di prigionia commerciale.
Il protocollo di Parigi (PP), siglato nel 1994, regola le relazioni fra Israele e l'Autorità Palestinese. In sostanza la normativa in esso contenuta pone Israele ed il futuro stato Palestinese sullo stesso piano per quanto riguarda il regime fiscale e commerciale (la cosiddetta taxation envelope). In realtà Israele ha imposto continue restrizioni agli accordi, opponendo ragioni di sicurezza interna, con un ulteriore giro di vite avvenuto nel 2000, dopo la seconda Intifada. Da allora gli scambi commerciali si muovono quasi a senso unico; merci israeliane possono entrare negli OPT ma non viceversa. Ciò significa che i palestinesi dipendono di fatto dalla normativa doganale sull'import/export decisa da Israele. Così, dal 2000 al 2008 la dipendenza economica dei palestinesi da Israele è cresciuta al 52%.
Tutto ciò ha avuto un'influenza negativa sulla nascente industria farmaceutica palestinese. Il ministero della Sanità israeliano ha imposto l'importazione esclusiva di farmaci registrati in Israele sia nella West Bank (WB) che nella striscia di Gaza (GS), impedendo, salvo rare eccezioni, gli scambi di prodotti con i paesi arabi limitrofi, partner commerciali naturali. I divieti si estendono anche all'importazione di farmaci generici dall'India, dalla Cina e dai paesi dell'ex USSR, molto competitivi nel prezzo, in quanto non registrati nel mercato israeliano.
Quest'ultimo importa principalmente da Unione Europea, Nord America e Australia, dove i farmaci sono notoriamente più costosi. Un solo esempio per capire meglio. Il Plavix®, usato dopo interventi di cardiochirurgia, se acquistato in Siria come generico costerebbe 12 US$ alla confezione, mentre I palestinesi lo devono acquistare obbligatoriamente da Israele, al prezzo di 110 US$.
L'industria farmaceutica palestinese serve una popolazione di almeno 4 milioni di abitanti, con un mercato stimato sui 105 milioni US$, 75% dei prodotti sono venduti in loco con un'autonomia del 50%, essendo il 35% importato da Israele ed il 15% dall'estero. Quei pochi scambi commerciali comunque permessi, per millantate ragioni di sicurezza, non possono avvalersi del vicino aeroporto Ben Gurion, ma devono optare per spedizione navale via Giordania, logisticamente sfavorevole, oltre che più costosa.
In accordo con il PP, i farmaci con la scritta “Dono all’Autorità Palestinese” possono arrivare a destinazione anche se non registrati in Israele, ma non possono poi uscire dagli OPT. A Gaza si arriva così all'assurda situazione nella quale i farmaci scaduti, non potendo essere rispediti, devono essere smaltiti in loco, con aggravio dei costi. Se si considera poi che molte donazioni avvengono con prodotti al limite della scadenza di impiego ecco spiegato il problema dell'accumulo di sostanze chimiche in uno dei territori più densamente popolati del pianeta.
Altri ostacoli che l'Industria farmaceutica palestinese si vede frapporre sono determinati dalla licenza per l'importazione e uso di materie prime, per ogni singola spedizione. Alcune sostanze possono infatti rientrare in una lista di prodotti potenzialmente adatti a fabbricare esplosivi (dual-use). Per insindacabile decisione israeliana sotto questa denominazione ricadono una sessantina di sostanze, anche di uso comune, come la glicerina, eccipiente per la produzione delle capsule, o base per confezione di lassativi, oppure l'acqua ossigenata, usata come sterilizzante. Un altro ostacolo è rappresentato dal passaggio di merci da e per WB e da WB alla GS, che deve sottostare alla discrezionalità dei militari ai vari checkpoint.
Al contrario di quella palestinese, l'industria farmaceutica israeliana si è potuta sviluppare sin dagli anno '50, grazie anche ad un regime protezionistico e di facilitazione fiscale. Il settore farmaceutico è uno dei maggiori successi commerciali dell'export Israeliano. Le aziende farmaceutiche nate in Israele, più di una trentina tra piccole e grandi, producono essenzialmente farmaci generici, impiegano oltre 7.000 addetti con un fatturato che ha raggiunto i 5.5 miliardi di dollari nel 2008, per un export in più di 120 paesi che rappresenta il 10% della bilancia commerciale. Tutte le aziende, dalla più grande, Teva, alle più piccole, sono nettamente favorite da questa situazione, sia per il facile accesso al mercato palestinese, senza intoppi di checkpoint, sia dall'assenza di barriere doganali, che impongono altrimenti il passaggio di carico tra mezzi di trasporto. Grazie alle norme di sicurezza solo Israele può vendere ai palestinesi i propri farmaci, che oltretutto non sono etichettati in lingua araba.
Anche per le multinazionali come Bayer, Pfizer e AstraZeneca, negli OPT non c'è competitività nei prezzi, visto il divieto di importare generici a basso costo, perché non registrati in Israele.
Il PP aveva sancito un principio di eguaglianza commerciale e fiscale fra Israele e gi OPT, ma la realtà non si è mossa nel verso auspicato dai negoziatori. Così il costo dei farmaci è stato parificato a quello vigente in Israele, imponendo ai palestinesi prezzi oltremodo elevati, senza contare l'umiliazione di dover usare un prodotto etichettato esclusivamente nella lingua del paese occupante.
Il documento “Captive economy. The Pharmaceutical Industry and the Israeli Occupation”, a cura di Coalition of Women for Peace (www.coalitionofwomen.org) e con la collaborazione di Who Profits (www.whoprofits.org) può essere scaricato gratuitamente, e diffuso, da
http://www.whoprofits.org/sites/default/files/captive_economy_0.pdf

Tratto da www.nograziepagoio.it
Fonte: http://www.disinformazione.it/farmaci_palestina.htm

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